Figlio di Pietro, nacque a Intra verso il 1465-70; si trasferì a Pavia e di qui, intorno al 1490-92, a Gubbio, dove esercitò l’arte del vasaio.
Nel 1492 il fratello Salimbene, anche a nome di Giorgio, assente da Gubbio, strinse una società per l’esercizio dell’arte della ceramica con Francesco alias Segnore di Giovanni di Borgo S. Sepolcro, residente in Gubbio. La prosperità del lavoro fece sì che nel 1497 Giorgio e il fratello giungessero in possesso di terreni, casa e bottega propria. In un tardo documento del 1521 e in altri posteriori è precisato che queste ultime si trovavano in quartiere di S. Andrea. Il Mazzatinti, anzi, suggerisce, sia pure dubitativamente, che il cognome di Andreoli possa essere derivato a Giorgio dalla località di residenza, non apparendo esso mai in atti anteriori al 1523.
L’anno 1498 mastro Giorgio chiese e ottenne per vent’anni per sé e per i fratelli Giovanni e Salimbene la cittadinanza eugubina, poi rinnovata nel 1519 da Leone X senza più limite di tempo, in considerazione “della sua eccellenza nell’arte della maiolica sì che alcuno non gli è pari” e “per l’onore che ne ridonda alla città, al Signore ed al comune di Gubbio presso tutte le Nazioni alle quali vengono portati i vasi della sua fabbrica e per il grande lucro ed utilità di dogana”.
La natura delle forniture della bottega dell’A. e fratelli al convento di S. Pietro, seguite dal Mazzatinti sui libri contabili della comunità sin dal 1499, rivela la base del lavoro, specie per i primi tempi: vasellame comune per uso di tavola. Insieme sembrano, però, apparire cose più raffinate.
Dei fratelli, mastro Giorgio è la figura preminente. Infatti, non soltanto si trasferisce fuori Gubbio (a Roma nell’ottobre del 1517, per occuparsi degli affari di una chiesa in diocesi di Pesaro, e nel marzo del 1518 a Pesaro stessa per il medesimo affare), ma tratta affari di compra-vendita, di affitto, ecc., con l’approvazione dei fratelli Salimbene e Gerolamo detto Captanio (lo stesso che negli altri documenti è costantemente chiamato Giovanni), ambedue ceramisti.
Persona ormai facoltosa e stimata, l’A. conduce la bottega comune sino al 1536, vi alleva i figli Vincenzo e Ubaldo, vi chiama a lavorare anche artefici forestieri. L’anno 1525 si associa, con due atti separati, un Giovanni Luca pittore di Casteldurante e un Federico vasaio di Urbino, con precisa divisione di compiti: il primo avrebbe dipinto e l’A. avrebbe applicato i lustri a finito, il secondo si impegnava a far vasi “bene et fideliter”.
Deceduto Salimbene prima dell’anno 1523, deceduto Giovanni verso il 1535, l’anno 1536 mastro Giorgio, probabilmente in sede di divisione di beni con gli eredi dei fratelli, cede la conduzione dell’officina al figliolo Vincenzo.
Nel 1547, presente e consenziente il padre, i fratelli Vincenzo e Ubaldo stipulano fra di loro una convenzione di società nella quale i compiti rimangono così attribuiti: Vincenzo foggierà e completerà ogni genere di vasi e Ubaldo dipingerà e farà dipingere tutti questi vasi. Inoltre, quest’ultimo completerà i vasi dipinti con la maiolica, ove sia necessario, infornerà e sfornerà e governerà la bottega.
L’anno 1551, in due distinte separate petizioni, tanto mastro Giorgio ormai vecchio, per sé, figlioli e nipoti, quanto i figlioli di Giovanni, Giov. Maria, Bartolomeo e Vincenzo, chiedono e ottengono dal duca d’Urbino, Guidobaldo II, il rinnovo dei privilegi, che appaiono essere stati lasciati scadere dagli uffici ducali. In questa domanda l’A. afferma che il duca Guidobaldo II al tempi della concessione della cittadinanza, gli affidò “la cura del cassaro et fortezza della città di Gubbio con ottima provisione e favore anco et commodo d’esercitare in essa quella nobile arte della maiolica”: la circostanza è ripetuta nella domanda dei nipoti che affermano, inoltre, aver sempre l’A. trattato gli affari comuni dei fratelli. Nel 1553 o poco dopo egli muore; il figlio, mastro Vincenzo, fa testamento l’anno 1576.
La questione se mastro Giorgio sia o non sia stato pittore di maioliche “a grande fuoco” è di quasi impossibile soluzione. Come s’è visto, la bottega dell’A., oltre che vasellame di uso comune, lavorava anche oggetti più raffinati. Delle finiture a lustro le prime notizie documentarie sembrano essere quelle che appaiono sull’atto di assunzione del pittore Giovanni Luca di Casteldurante l’anno 1525: “Dominus Georgius promissit dicto Ioanni Luce presenti etc. eidem dare et cuplere de laboreriis seu vasis finitis vel pingendum in colorem et maiolicas et coquituras et omnia alia necessaria excepta pictura”.
Un solo pezzo, un piatto nella collezione Dutuit di Parigi, reca la segnatura particolare “M. Giorgio 1520 Adi decebre B.D.S.R. ugubio” a “gran fuoco”; ogni altro contrassegno o marca della bottega appare costantemente tracciato a lustro. Ciò lascia, evidentemente, la questione insoluta. Allo stato delle conoscenze si può affermare che la bottega con tanto successo condotta da M. Giorgio, dopo l’avvio dei modo di rifinire a lustro i pezzi, verso il 1515, ha prodotto opere policrome a gran fuoco, e vi è ragione di ritenere che questo si facesse anche prima. Quale sia stato il contributo di mastro Giorgio, all’infuori della lustratura, non sappiamo, benché il Falke inclini a ritenere estesa l’opera pittorica personale.
Il lustro, cioè il colore con riflessi cangianti di metallo, di tono rosso, oro e argento, che il cav. Cipriano Piccolpasso di Casteldurante, nei suoi “Tre libri dell’arte del vasaio”, verso il 1556-57 dice aver veduto applicare a Gubbio nella bottega di M. Cencio, il figlio di M. Giorgio, è tecnica in quei tempi assai poco nota, difficile da applicare, originaria dei paesi dell’Oriente prossimo e della Spagna moresca. Infatti, tanto il Piccolpasso quanto, prima ancora, lo stesso mastro Giorgio nel rovescio di un piatto al Museo civico di Bologna datato 1532 lo indicano col nome di “maiolica”, derivato da Maiorca nelle Baleari, perché ornati coi colori a lustro cangiante erano, appunto, i prodotti spagnoli che tramite quel porto giungevano in Italia.
Il capo più antico oggi noto, ornato a lustri rosso rubino e oro dall’A., è un piatto datato 1515 al Victoria and Albert Museum di Londra; più ricco un gruppo datato dal 1518 al 1524, fra cui il primo che reca il nome “M. Giorgio Adi 18 de marzo 1518”. La maggior parte di tali piatti reca ornati a grottesche, a trofei, a putti, di prevalente stile durantino, dipinti in turchino e verde, arricchiti poi a lustro di rosso e oro; più tardi, palmette e altri ornati dipinti e coppe e vasi ad ornati plastici, sui quali il lustro gioca con maggiori incidenze alla luce, rivelano influssi estranei al nucleo metaurense.
A lato di queste opere, certamente prodotte in bottega per la rifinitura a lustro, se ne pongono altre istoriate che, o per spiccate caratteristiche tecnologiche e stilistiche o per precisa indicazione scritta nel rovescio, appaiono dovute ad artefici non eugubini. Il completamento coi lustri della tavolozza abitualmente a piena policromia, nelle scene concepite con intenti plastici e prospettici, è quasi costantemente accompagnato dalla sigla M. G. e dalla data in lustro dorato nel rovescio. Mastro Giorgi, o i collaboratori della sua officina, hanno lustrato opere di maestri faentini, durantini, urbinati: il monogrammista F.R., Nicola Pellipario, cui sono attribuiti la bellissima coppa del 1525 col S. Giuda nel Museo di Pesaro e il citato piatto con la Presentazione della Vergine al tempio e l’iscrizione a lustro “1532 M. G. finì de maiolica” nel museo civico di Bologna, Francesco Xanto Avelli.
Taluno ha voluto vedere nella “S” che accompagna un emblema al rovescio di alcuni capi, conservati nelle collezioni del British Museum di Londra, il distintivo di Salimbene; nella “N” di altri capi il distintivo di mastro Vincenzo; nel nome Perestino, su di una placchetta con la Vergine ed il Figlio al Louvre, datata 1538, altra indicazione di maestro: non sappiamo quanto le determinazioni siano attendibili.
Di Giuseppe Liverani
Fonte: http://www.treccani.it/enciclopedia/giorgio-andreoli_(Dizionario-Biografico)/