Cleofe Maria Borromei (Borromeo) nacque a Monselice il 3 marzo 1440 da Andrea di Borromeo Borromei di Padova e da Francesca di Carlo Pio dei signori di Carpi.
Nella tradizione letteraria la G. è nota con il cognome del marito, Filippo Gabrielli, come risulta anche dalla lettera dedicatoria premessa al suo poema, in cui ella stessa si chiamò “Cliophe de li Gabrieli da Eugubio”. Il padre, che era figlio naturale ma legittimato di Borromeo di Filippo Borromei, originario di San Miniato in Toscana, fu al servizio di signori e accrebbe notevolmente le proprietà che possedeva nel territorio padovano. La G., per decisione paterna, trascorse i primi anni della giovinezza presso la corte ferrarese, sotto la protezione di Borso d’Este, per completare la sua formazione culturale. Nel 1451 venne iscritta al Monte delle “doti per sette anni e mezzo” di Firenze, con un deposito di denaro che le permise di ritirare una dote di 800 fiorini.
Nel 1453 il padre della G. decise di stabilirsi temporaneamente a Gubbio, dove aveva ricoperto dal 1449 l’ufficio di podestà dietro nomina di Federico da Montefeltro, e prese in affitto una casa nel quartiere di S. Andrea. La G., ormai in età da marito, si ricongiunse in quegli anni alla famiglia e nell’aprile 1455 fu concluso il contratto di matrimonio tra lei e Filippo di Carlo Gabrielli, appartenente a una delle maggiori famiglie della locale aristocrazia. Filippo Gabrielli era un gentiluomo di circa 40 anni e con i fratelli Antonio e Gabriello occupava un posto di rilievo tanto nella corte di Urbino quanto nell’esercito feltresco, di cui era uno dei capisquadra più valenti. Il matrimonio tra la G. e Filippo venne celebrato circa un anno dopo la promessa, a causa della giovane età della sposa. La coppia abitò per i primi anni in una casa situata nei pressi del palazzo del vescovo, nel quartiere di S. Andrea. Dall’unione nacquero quattro figli: Costanza che entrò nel convento di S. Spirito di Gubbio; Isotta che si sposò con Creone di Matteo Montesperelli di Perugia; Federico, capitano dei balestrieri di Venezia e in seguito capitano della guardia di Guidubaldo da Montefeltro, sposatosi con la poetessa Contarina Ubaldini della Carda; infine Camilla che sposò Corrado Tarlatini di Città di Castello.
La G. – oltre a svolgere i compiti propri di una nobildonna del suo rango – coltivò con successo la poesia, nel solco di una consolidata tradizione che vedeva la presenza nelle corti di donne letterate (basti solo ricordare Battista da Montefeltro). Unica testimonianza di una attività che dovette essere senz’altro più feconda, stando alle notizie dell’erudizione secentesca, è un poema encomiastico dedicato a Borso d’Este che venne composto da lei nel 1471 in occasione di una visita di Borso a Gubbio il 23 marzo durante il viaggio a Roma per ricevere da Paolo II il titolo ducale. Nel corso della tappa eugubina la G. ebbe modo di leggere a Borso le sue rime e, ricordando l’ospitalità ricevuta durante i primi anni della sua giovinezza, chiese protezione per la propria famiglia e per il marito condottiero. Testimone di questo incontro fu Matteo Maria Boiardo, di cui la G. aveva conosciuto da bambina alla corte estense lo zio, Tito Vespasiano Strozzi.
Suo marito continuava nel frattempo la propria ascesa alla corte feltresca: nel 1463 fu creato cavaliere da Federico; nell’agosto del 1471 rappresentò il signore di Urbino a Ferrara, dove fu inviato per porgere le condoglianze al duca Ercole per la morte di Borso. Nel 1477 l’architetto Francesco di Giorgio Martini donò al Gabrielli, a nome di Ottaviano Ubaldini della Carda, un appezzamento di terreno sito nei pressi della sua abitazione. Il Gabrielli morì nel 1482 seguìto poco dopo dallo stesso duca Federico da Montefeltro, protettore della famiglia. La G., in una situazione politica insicura, dovette occuparsi degli affari di famiglia, affittando alcuni beni che il marito possedeva nel contado eugubino; forse per mancanza di denaro liquido procedette all’alienazione di una parte del patrimonio ereditato dal figlio e del suo fondo dotale. Nel 1483 concluse, con l’appoggio del cognato Antonio, il matrimonio tra Federico e Contarina Ubaldini della Carda, che portò una dote di 650 fiorini; in seguito si occupò anche delle nozze della figlia Camilla. Poi sulla sua attività non si hanno ulteriori notizie, così come è ignota la data della sua morte, da collocarsi probabilmente verso la metà degli anni Novanta.
L’unica opera che ci è rimasta della G. è il già ricordato poema encomiastico dedicato a Borso d’Este, diviso in tre capitoli, in terza rima per complessive 152 terzine.
Nel primo capitolo, che al pari degli altri due è condotto in prima persona, l’autrice immagina di trovarsi a fantasticare sotto un albero di alloro, allorché le appare una donna “più bella assai che ‘l sole”. Costei si offre di accompagnarla in un mondo onirico per farle ammirare una lunga schiera di uomini e di donne resi immortali dalle loro virtù, dalle loro doti, dalle loro gesta. La G., grazie ai poteri della divinità apparsa, la Fama, vola verso le altezze della celebrità e vede un corteo di splendidi personaggi che avanza alle spalle di un uomo, che sulle prime non è in grado di riconoscere, ma che poi la Fama rivela essere Borso.
Nel secondo capitolo la Fama torna a elencare personaggi sia reali sia fantastici del mondo classico, che fanno parte della teoria trionfale. Il capitolo si chiude con un panegirico sulle virtù e sulle qualità del signore di Ferrara.
Nel terzo capitolo la G. viene riportata alla realtà da un rumoreggiare che proviene dal fondo della valle poco distante. Ella si guarda intorno e si accorge che il frastuono è provocato da un corteo che conduce Borso in trionfo. Ancora una volta la Fama le spiega che si tratta del passaggio del duca Borso nelle terre eugubine, attraversate per recarsi a Roma, dove il papa lo “attende a sacre imprese”. Federico da Montefeltro e tutto il suo Stato, continua la guida, lo accolgono quindi degnamente con amicizia e con gioia.
Il poema, tramandato da un codice del XV sec. in umanistica corsiva, è conservato presso l’Arch. di Stato di Perugia, Sez. di Gubbio (Armanni, II.D.7, cc. 1r-15v). L’opera è redatta in un volgare tipico dell’Italia centrale, intriso di dialettismi veneti ed è ispirata nella scelta lessicale a un pedissequo petrarchismo: una scelta che corrompe la freschezza e l’originalità del poemetto già carico di soffocante e stucchevole erudizione, ridondante di luoghi, figure e mezzi espressivi presi a prestito dai modelli poetici più in voga. La notevole mole di cultura ostentata e l’abilità nell’esercizio poetico denotano tuttavia l’elevato grado di educazione letteraria della Gabrielli.
Dell’operetta esistono anche tre copie manoscritte, sempre conservate presso lo stesso Archivio: Armanni, II.D.20, pp. 77-93 (sec. XVII); Armanni, I.E.b.25, (sec. XVIII); Armanni, II.E.13, pp. 101-133 (sec. XIX).
L’abate G.C. Amaduzzi pubblicò il poema a Roma nel 1782, utilizzando il manoscritto del sec. XV e la copia del sec. XVII; lo ripubblicò poi l’anno successivo, sempre a Roma, nel IV volume degli Anecdota literaria ex manuscriptis codicibus eruta.
Di Patrizia Biscarini
Tratto da: http://www.treccani.it/enciclopedia/cleofe-maria-gabrielli_%28Dizionario-Biografico%29/